L’espressione casi limite, nella cornice della terapia invasiva endoluminale, può avere due significati. In un senso lato essa si può riferire a quei casi clinici in cui un trattamento invasivo sarebbe tecnicamente fattibile ma non sarebbe giustificato da considerazioni cliniche che possono collocarsi in posizioni antitetiche: da un lato età troppo avanzata, condizioni scadenti o scarsa aspettativa di vita o dall’altro sintomatologia scarsa o nulla e rischio, connesso alla storia naturale della patologia oggetto della considerazione, insignificante o minimo.
In un senso più specifico, più vicino allo spirito del corso Vascular Club, i casi limite sarebbero quelli in cui le difficoltà tecniche e la complessità della strategia terapeutica o la rarità della presentazione meritano attenta considerazione e di conseguenza suscitano dibattito.
Questo non significa che le considerazioni relative alla indicazione clinica siano secondarie nella discussione che si prevede di innescare: proprio in un’epoca di possibilità economiche sempre più scarse, le considerazioni tecniche devono, in una razionale strategia di allocazione delle risorse, essere lette sempre di più alla luce della congruità clinica. In questo senso il ruolo educativo del Vascular club deve essere quello di sottolineare l’importanza di un sobrio equilibrio tra conoscenza clinica e capacità tecnica.
Equilibrio che viene normalmente raggiunto con l’esperienza e l’acquisizione del “buon senso” ma che deve essere trasmesso alle nuove generazioni che intendano dedicarsi a questo entusiasmante campo della medicina.
I temi che si intende affrontare in questa edizione, come si può vedere, sono in parte quelli soliti. L’embolizzazione percutanea è argomento abitualmente trascurato nei convegni organizzati da chirurghi vascolari e cardiologi mentre è privilegiato dai radiologi, tradizionali interlocutori e detentori del know how nelle condizioni cliniche che la rendano necessaria.
L’evoluzione tecnologica in questo campo è formidabile e la competenza tecnica che si richiede è sempre maggiore. Non ci sarebbe nemmeno bisogno di spiegare perché il trattamento della patologia femoro-poplitea e di quella dei vasi sottopoplitei sia anche quest’anno oggetto di considerazione: si sente dire sempre più spesso che non si vedono quasi più stenosi isolate delle arterie iliache o della femorale superficiale mentre le lesioni lunghe dell’asse femoro-popliteo e dei vasi distali costituiscono oramai la quotidianità, con tutto il corredo di complessità tecnica che le accompagna.
Gli endoleak di II tipo continuano a costituire un’incognita piuttosto fastidiosa dell’EVAR. Anche assumendo un atteggiamento prudente nel porre l’indicazione al trattamento endovascolare di un aneurisma aortico – evitando anatomie complesse, per esempio – non si è immuni dal rischio di una persistente perfusione della sacca da parte dei rami dell’aorta, perfusione che, come è noto, genera ansia nei pazienti e nei medici.
A questo proposito è quanto mai utile che si mettano a confronto le consistenti esperienze acquisite da alcuni colleghi, competenti in tema di profilassi e di terapia dell’endoleak di II tipo, che risponderanno ai nostri quesiti e, auspicabilmente, ci infonderanno ottimismo in merito.
Che dire, infine, in tema di casi limite nell’EVAR? Questo è un campo della terapia endovascolare che non sembra conoscere crisi. Vi sono colleghi che affidano al trattamento endoprotesico il 70-80% dei pazienti portatori di aneurisma dell’aorta addominale incontrando e, si suppone, risolvendo un ampio ventaglio di problemi tecnici, senza perdere di vista il rapporto costorischio/beneficio.
Si spera che, ancora una volta, il confronto trasversale ed amichevole ci faccia tornare a casa con qualche dubbio in meno.